Tra tante luci e altrettante ombre, l’elezione di ieri segna una cesura nel Paese, aprendo un nuovo ciclo a cui il Presidente rieletto e il suo governo dovranno dare forma e contenuti
Francesca D'Ulisse
I sondaggi degli ultimi giorni davano una maggioranza favorevole al Presidente uscente che oscillava tra i 7 e i 20 punti. La partita sembrava francamente impossibile da ribaltare anche se lontane apparivano le percentuali dei precedenti passaggi elettorali quando Chavez aveva superato l’avversario rispettivamente del 16% nel 1998, del 22% nel 2000 e del 26% nel 2006.
Questa volta, però, governerà con un Parlamento - uscito dalla tornata elettorale del 2010 – in cui l’opposizione ha un numero di deputati importante e il PSUV, Partito Socialista Unito del Venezuela, non ha la maggioranza assoluta degli scranni. Come in un paese “normale”, si dirà.
Ma forse vale la pena provare ancora una volta a capire perché governo e potere in Venezuela non cambiano da 14 anni. Bisogna tornare indietro nel tempo, al 1998, quando un semi sconosciuto colonnello dell’esercito arriva alla massima carica del Paese. In quell’epoca il Venezuela stava vivendo una drammatica crisi dei partiti tradizionali. Corruzione, uso improprio del denaro pubblico, collusione tra politica e settori dell’alta borghesia: erano queste le costanti di un bipolarismo malato che aveva governato il paese fino ad allora. Una crisi di legittimità dei partiti e delle istituzioni arrivata al suo apice, quella della fine del secolo scorso, in un Paese ricco, seduto su un’immensa riserva di “oro nero”, benedizione per pochi ricchissimi e flagello per i più poveri, solo sfiorati da tanta opulenza.
Chavez diventa la risposta a questo desiderio di rottura con la vecchia classe dirigente e a questa speranza di cambiamento. Ma non basta. Egli riesce dove gli altri leader politici non erano riusciti. Dà una identità sociale ai tanti poveri e diseredati del Venezuela, un paese razzista, classista e profondamente disuguale. Fa sentire i poveri e gli esclusi parte di un progetto condiviso di trasformazione del Paese. Inventa e trasmette un’epica collettiva di riscatto sociale emisferico che ha le sue origini in un Bolivar mitizzato ad arte. C’è poco Mariategui o Gramsci – di cui il nostro si dice, ahinoi, cultore – nella narrativa del potere. C’è molta cultura del realismo magico sudamericano, dove la moltitudine fa la storia.
Arrivano, quindi, i programmi sociali “las misiones” che sostengono il reddito delle classi più povere con sussidi e strutture di appoggio. Arrivano i medici cubani lì dove mai si era visto un presidio ambulatoriale. Arrivano i servizi primari, fogne, scuole. Arriva un senso di cittadinanza attiva e di partecipazione sociale. Il “barrio”, il quartiere, prende vita con i tanti soldi che il governo trasferisce e che sono spesi, male, dalla neo borghesia bolivariana (la “boliborghesia”). In poco più di dieci anni si dimezza il livello di disuguaglianza, per cui oggi il Venezuela è il paese latinoamericano che presenta le minori differenze tra ricchi e poveri. La povertà estrema tocca solo il 6,9% della popolazione (era il 21% nel 1998). Sono dati della Cepal, la Commissione delle Nazioni Unite per l’America latina, non del Governo Chavez.
Poco cambia, tuttavia, nella struttura produttiva del Paese in questi 14 anni. Il Venezuela resta dipendente dall’export di petrolio (che pesa per il 90% del Pil) e risente enormemente della volatilità del suo prezzo, con la conseguenza che il governo appare incapace di programmare uno sviluppo sostenibile e di medio termine. Con gli enormi proventi derivanti della vendita del greggio, grazie ai prezzi record degli ultimi dieci anni, e con il tasso d’inflazione reale più alto dell’America latina, +27,9 %, il Paese cessa di produrre: si importa tutto, anche i prodotti agricoli, per l’80% dei consumi interni. Chiudono le industrie e non se ne creano di nuove anche perché gli imprenditori privati, autoctoni o internazionali, preferiscono optare per altri mercati dove maggiore è la sicurezza giuridica. A questi dati economici poco incoraggianti si unisce la piaga della violenza: il Venezuela è tra i paesi più pericolosi dell’emisfero con 19.000 omicidi nel solo 2011 e con la recrudescenza del fenomeno dei sequestri. Ne fanno le spese tanti nostri connazionali.
Tra tante luci e altrettante ombre, l’elezione di ieri segna in ogni caso una cesura nel Paese, aprendo un nuovo ciclo a cui il Presidente rieletto e il suo governo dovranno dare forma e contenuti. La “madre di tutte le elezioni”, come alcuni analisti politici latinoamericani l’hanno definita, ci consegna all’analisi due dati che saranno le prossime sfide del Presidente e misureranno la responsabilità istituzionale dell’opposizione.
In primo luogo, c’è da ricostruire uno spirito di unità nazionale che faccia sentire tutti i venezuelani parte di una comunità orientata verso il bene comune. A livello di tessuto e tenuta sociale, infatti, il paese appare frammentato e diviso, fortemente polarizzato tra fautori e detrattori del processo bolivariano. Un quadro complicato da gestire nel medio periodo soprattutto perché l’esperienza e la storia insegnano che non si governa un paese con il 40% dei suoi cittadini che remano contro.
C’è poi da riattivare il sistema economico, adottando anche modalità innovative e sperimentali, coniugando industria privata e cooperative sociali e modulando il ruolo dello Stato che deve impegnare gli enormi fondi a disposizione per investimenti strutturali. La recente adesione al Mercosud, se non accompagnata da adeguate riforme di sistema, avvantaggerà gli altri soci della regione più che il governo venezuelano. In questo senso, se al Pil derivante dal petrolio non si affiancherà un piano economico e delle strutture produttive il Paese sarà destinato a un declino ulteriore. Non sono sfide facili o dall’esito scontato, al contrario. Tuttavia, dopo 14 anni di governo e un ulteriore mandato a disposizione, la comunità internazionale chiede un tangibile salto di qualità e di poter tornare a guardare al Venezuela come a un partner affidabile in America latina
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