Intervista a Gianni Cuperlo, Gli Altri, 07 giugno 2013
Cuperlo, come sta vivendo questo momento di particolare esposizione pubblica come candidato alla segreteria del Pd?
“Credo di avere un carattere schivo e forse questo fa a pugni con l’idea che si ha della politica. Ma ci sono ragioni per le quali si può accettare di farsi un po’ di violenza. La mia, di ragione, è nell’idea che ci sono momenti difficili dove ciascuno, nel modo che sa e che può, deve dare una mano. Solo questo. Resto convinto che il Pd, nonostante i passi a vuoto degli ultimi mesi, sia il progetto politico più importante messo in campo in Italia da molto tempo. E continuo a pensare che abbia tutte le carte per diventare quello che avevamo immaginato. A patto di indicare una rotta nuova”.
Alla recente assemblea nazionale del Partito lei ha dichiarato: “Noi abbiamo capito solo in parte lo spirito del tempo e una crisi che ha sconvolto milioni di persone”. Ecco, cos’è che non si è drammaticamente capito in questo spirito del tempo?
“Non è la dimensione della crisi a sfuggirci, Anzi, forse di questa crisi conosciamo a fondo le cause, le origini, l’entità. Il vero limite è stato nella difficoltà a cogliere l’impatto di tutto questo sulla vita e sul sentimento di milioni di persone, quelle che noi volevamo rappresentare. Poi certo che conta il merito. E da questo punto di vista a crollare è stato l’intero impianto culturale che ha retto l’Occidente negli ultimi decenni. Uno smottamento di questa entità non mette in gioco solo numeri o denari, ma passioni, convinzioni. Alle spalle abbiamo una concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi che non ha precedenti. Abbiamo il rovesciamento di priorità e valori che oggi ci restituisce una domanda di giustizia, uguaglianza, dignità. Forse non siamo stati abbastanza in sintonia con questi mutamenti, non li abbiamo colti e “condivisi” quanto avremmo dovuto. Al fondo io vedo un distacco consumato con quello che non saprei definire in altro modo che “popolo”. La crisi ha accelerato questo processo che comunque ha radici più profonde e che affondano almeno nell’ultimo trentennio. Da quando anche le forze di sinistra e progressiste hanno accettato l’idea che ci fosse un modo solo di intendere i rapporti tra politica ed economia, tra individuo, istituzioni, società. Le macerie di quella narrazione ci hanno trovati in difetto di parole e di immagini”.
Perché accanirsi allora a lavorare sempre soltanto su quello che si è capito? Lo sfoggio di superiorità intellettuale da parte della sinistra si è rivelato alla fine un pesante punto di debolezza nella competizione elettorale degli ultimi decenni.
“Non credo affatto in una superiorità intellettuale o morale della sinistra. Penso, questo sì, che la cultura sia un ingrediente non secondario della buona politica. La cultura, se è tale, è un’alleata nel creare la sintonia di cui parlavo prima. Molti grandi politici del passato sono stati anche raffinati intellettuali, ma questo non ha impedito loro di essere tra i leader più popolari del loro tempo. Il punto è la cultura politica che sorregge l’azione e l’identità di un partito. Il che non deriva dal numero dei libri che hai letto ma dalla forza delle tue idee. A dirla tutta, chi ha creduto, anche tra noi, che la cultura ci allontanasse dalle persone, semplicemente ha deciso di smettere i propri panni e vestire quelli altrui. Detto ciò quello che può aver contribuito ad allargare il fossato tra la sinistra e il Paese è stata la presunzione di essere “migliori” degli altri e che l’Italia “buona” stesse dalla nostra parte. Sia chiaro, non dico affatto che siamo tutti uguali, guai! C’è chi in questi anni ha fatto strame di regole, principi e legalità e chi, come noi, si è incaricato di presidiarli. Ciò che va combattuto è una sorta di bipolarismo sociale e morale che ha semplificato artificiosamente la società lacerandola e impedendo alla nostra parte di cogliere energie e potenzialità di movimento”.
“Indicare un’altra via dello sviluppo e delle relazioni umane non è compito degli economisti”. Cito sempre dal suo discorso. Ma la disaffezione è grande. Come rianimare il corpo moribondo della politica? A partire dalle relazioni umane, d’accordo. Ma come se lo immagina lei questo laboratorio dell’umano?
“In realtà mai come in questo momento è avvertito il bisogno di politica. Di una politica credibile e in grado di infondere nuova linfa a una democrazia quasi ovunque in crisi. Io leggo questo negli 11 milioni di astenuti alle ultime elezioni di febbraio. E’ come se ci avessero detto: “Stiamo aspettando, battete un colpo”. E noi questo dobbiamo fare. Segni e testimonianze tangibili che passano da una riduzione dei costi e dei numeri della politica, da una selezioni scrupolosissima dei candidati; dalla riforma di una legge elettorale odiosa. Poi ci sono i partiti. Senza i partiti non c’è democrazia, bisogna ritrovare la forza di questa convinzione. Certo, partiti del nuovo secolo, rinnovati nelle strutture, nei costi e nel modo di stare nella società. Ma non si tratta di partire da zero. Vediamo bene le incredibili energie che sono attive e che in questi anni hanno indicato la rotta di una nuova partecipazione. Sono i milioni di cittadini che hanno animato la battaglia per l’acqua, per la dignità delle donne, per i diritti civili. Sono anche i tanti elettori in fila per le primarie, i volontari delle feste e dei nostri circoli”.
Politicamente lei è stato sempre vicino a D’Alema, con il quale ha anche scritto dei libri. Chi è per lei Massimo D’Alema?
“Un leader politico con cui ho collaborato a lungo, come del resto mi è capitato di fare con altri. Ci lega un’amicizia quasi ventennale e una stima che spero reciproca, lo considero un uomo leale che fa le sue battaglie, ne paga il prezzo e crede nella politica. Ha le sue idee, uno le può condividere o meno, ma è anche una personalità autorevole fuori e dentro l’Italia e questa per il Pd la definirei una risorsa piuttosto che un problema”.
Lei è stato segretario della Fgci negli anni Ottanta. Che tipo di organismo era la federazione giovanile dei comunisti? E la parola comunista per lei è ancora in grado di risuonare?
“Ho diretto la Fgci tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Era un’organizzazione ancora significativa nei numeri e nelle strutture, piena di problemi, certo, ma per me e per tanti come me è stata una palestra e soprattutto una comunità. La possibilità di comprendere cosa significhi la politica come esperienza collettiva. E’ cambiato il mondo da allora, ma ecco, io questo tratto lo salverei. Mi è capitato di sentirne spesso la mancanza. Quanto al nome, il comunismo italiano è la storia da cui vengo, è stato il punto di scoperta della politica. E’ stata una storia complessa. Questo vale per la mia come per altre culture che nel Pd si sono incontrate: la sinistra socialista, laica, azionista, il cattolicesimo democratico, l’ambientalismo e le culture dei diritti, i movimenti di base e il pensiero delle donne. Se abbiamo creduto nel Pd e ci crediamo ancora non è per rimuovere o rinnegare le nostre radici, questo ci renderebbe solo più fragili ed esposti ai venti. Ma per accettarne l’eredita fino in fondo, con luci e ombre”.
Per noi che non la conosciamo se non per via letteraria, Trieste (la città in cui è nato nel ’61) è la Mitteleuropa, è la psicoanalisi, è Italo Svevo, ed è un paesaggio lunare e ventoso che sposta il corpo, lo fa cadere e lo rialza. Cos’è Trieste per lei?
“Trieste è un po’ il simbolo di come una grande tradizione può ripensare al suo ruolo nella modernità. Non è una città museo e neppure una realtà che la storia, con i suoi eventi spesso drammatici, ha sconfitto. E’ una grande città della nuova Europa, è un laboratorio di convivenza e innovazione che può ricollocare il confine nord orientale a pieno titolo nel cuore del tempo. Il sindaco Cosolini e la nuova presidente della Regione, hanno tutte le risorse e l’intelligenza per riuscirci”.
Possiamo dire che ci sono stati anni in cui il Dams di Bologna (dove lei si è laureato) è stato un po’ come il conservatorio di Monaco per i giovani protagonisti di “Heimat” di Edgar Reitz?
“Lascerei perdere i paragoni. Io della mia università conservo ricordi intensi e, spero, per nulla banali. Le lezioni di Squarzina su Casa cuore infranto di Shaw, o quelle di Fabrizio Cruciani sul teatro e la civiltà rinascimentali. E poi docenti di valore come Ruffini, Celati, Nanni. E una personalità di enorme valore come Mauro Wolf che ci ha lasciati molto presto. Penso a quegli anni con rimpianto”.
Lei insegna “Comunicazione”, ma comunicazione è diventata una parola antipatica, a tratti vuota. Come la intende lei e quale è l’orientamento del centro studi Pd di cui lei si occupa?
“Ho studiato e insegnato per breve tempo quelle materie. Non so se sia una parola “antipatica”, ma certamente nella dimensione politica ha assunto un rilievo crescente e non sempre giustificato. Non tutto è usurpato, intendiamoci: è ovvio che comunicare bene è decisivo. Tuttavia diffido di chi archivia i risultati elettorali deludenti con l’alibi di una “comunicazione sbagliata”. Continuo a pensare che prima venga il contenuto e poi le modalità per dirlo. Le cose non funzionano quando, come è successo negli ultimi anni, si riempiono i partiti di addetti stampa e di comunicatori e si svuotano i centri studi. E anche a causa di questo disarmo, forse, che le forze progressiste di tutta Europa, di fronte alla crisi e al crollo dell’impianto culturale delle destre stentano a gettare le fondamenta di un pensiero nuovo. Credo che la politica abbia un bisogno enorme di elaborazione culturale, di “lenti” per leggere il presente. Con Pier Luigi Bersani c’è stata grande sintonia su questo punto ed è per questo che ho accettato molto volentieri di guidare il piccolo centro studi del Pd, che ha avuto un po’ il compito di alimentare un confronto e un dialogo liberi e aperti tra partito, centro, fondazioni, associazioni, studiosi e ricercatori”.
Se diventasse segretario, dovrebbe esporsi molto di più di oggi nei talk show televisivi (fra l’altro la politica in tv è l’oggetto di un suo nuovo libro). C’è un modo secondo lei per stare in tv senza diventare un altro?
“Forse il segreto è banale. Basterebbe andare in televisione solo quando si ha qualcosa di nuovo da dire. Sarebbe una rivoluzione, temo chiuderebbero diversi programmi ma ne guadagnerebbe la sostanza. Chissà che non convenga provare”.
Come commenta il risultato elettorale di Roma?
“Sbaglieremmo a sottovalutare il dato dell’astensione. Detto ciò penso che il voto abbia premiato il candidato più solido, nuovo e credibile. Vincerà Marino e sarà un bravissimo sindaco per la capitale”.
Ma non crede che Letta abbia fatto un errore commentando l’indomani: ecco la prova che hanno vinto le grandi intese. Non è azzardato affermare che Grillo è già finito, che il Pd è in rimonta e che le cose vanno bene così come sono?
“Nessuno di noi si sognerebbe mai di dire che tutto va bene. Così come non pensiamo che il Movimento 5 Stelle sia finito. Indubbiamente, però, ha subito un arretramento clamoroso e, certo, si potrà anche sostenere che il voto amministrativo sia cosa diversa da quello politico, ma mi sembra una lettura piuttosto superficiale. Il punto è che in questi primi mesi della legislatura i parlamentari del Movimento hanno dimostrato di intendere le istituzioni come terreno di “minaccia” e non di confronto, responsabilità e cambiamento. Questo è esattamente lo spirito con cui abbiamo sostenuto Bersani nel tentativo di dare vita a un governo di cambiamento. E con lo stesso spirito, tramontata quella possibilità, abbiamo deciso di appoggiare con lealtà il governo Letta, un governo “di servizio” col concorso di forze che restano profondamente alternative, ma che collaborano per dare risposte immediate all’emergenza sociale ed economica del Paese. Ci sono ferite profonde che hanno scarnificato quel patto di fiducia tra cittadini e istituzioni che è alla vase di ogni democrazia. Ed è da lì che dobbiamo ripartire, con umiltà, ma anche con la forza che viene dal sapere per chi siamo e per quale idea dell’Italia ci battiamo”.
Quindi Lansdale è il più grande scrittore vivente?
“La mia era una vecchia battuta. Un romanzo, un libro non sono “oggetti”, interagiscono con noi alla stregua di persone e così, come in ogni relazione, sono cruciali momento, contesto, sentimenti che fanno da cornice all’incontro. Mi è capitato di leggere alcuni romanzi da ragazzo e, riprendendoli in mano dopo anni, avere la sensazione di non riconoscerli, di non ritrovarvi impressioni e atmosfere che mi avevano molto colpito e di scoprirvi insieme tanto altro che non avevo “visto”. Quando ho scoperto Lansdale ho trovato un rifugio sicuro dallo stress e dalla politica. Ma non è mica poco”.
Quale è il suo peggior difetto?
“E il suo?”.
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